venerdì, ottobre 27, 2006

Battaglia nel cielo


Battaglia nel cielo (2005)

(Batalla en el cielo)Un film di Carlos Reygadas.
Con Marcos Hernández, Anapola Mushkadiz, Berta Ruiz, David Bornstien, Brenda Angulo, El Abuelo, El Mago.


Genere Drammatico,
colore,
98 minuti.

Produzione Messico, Francia, Belgio, Germania 2005.


Capita qualche volta, tra tanto cinema prevedibile, di scoprire un film con uno "stile". Termine un po' in disuso: però vedere, per credere, come Carlos Reygadas (già fattosi notare per il suo esordio, Japon) mette in immagini questa strana storia di rapimento di bambini, coiti mistici, incomunicabilità, processioni barocche. Una delle prime sequenze, nel tunnel della metropolitana di Città del Messico, è un prodigio di virtuosismo; poi, il regista delimita il "campo" del visibile, ma riuscendo a includere nell'inquadratura un mondo intero (vedi quella, dall'alto, sul letto degli amanti). La forma, però, non prevarica l'emozione: mentre scopriamo i personaggi e i potenziali rapporti che li legano, il film ci fa entrare dentro la materia stessa delle cose e, contemporaneamente, dispiega un senso di mistero che introduce in uno spazio "altro", al di là dello spazio filmico così ben padroneggiato. L'imprinting di tutto ciò nella mente dello spettatore è forte, come capita ben poche volte in un'intera stagione cinematografica. Certo, la verità e la potenza di antieroi così insoliti potrà respingere alcuni; e forse disturberà non tanto la fellatio a Marcos della bella padroncina-amante, quanto l'accoppiamento tra l'uomo e sua moglie, brutti e sgraziati in un'epoca i cui la forma fisica è tutto, eppure capaci di fare l'amore con grande dolcezza. Battaglia nel cielo è un film da combattimento, sospeso al disopra di ogni banalità pornografica e che lascia una traccia nella memoria, non facile da cancellare. Da La Repubblica, 3 febbraio 2006
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Beppe Grillo discorso all'umanità!


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Gospel Music


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Ciò che la maggior parte delle persone identificherebbe come "Gospel Music" è una musica religiosa Afro-Americana basata su grandi cori di chiesa cui fa da contraltare un cantante solista eccezionale. In realtà il genere reso famoso da artisti come Thomas A. Dorsey, Sallie Martin, Willie Mae, Ford Smith ed altri cambiò sensibilmente circa 80 anni fa, e affonda le sue radici nelle forme più spontanee di devozione religiosa delle Chiese dei Santi, che incoraggiavano i singoli fedeli a "dare testimonianza" parlando e suonando (e talvolta danzando) spontaneamente della loro fede, durante la celebrazione. Negli anni Venti gli artisti di questo tipo di chiese erano spesso predicatori che si spostavano di parrocchia in parrocchia, e tra una predica e l'altra cominciarono a incidere in uno stile che fondeva temi religiosi tradizionali con le tecniche del blues e del boogie woogie. Inoltre cominciarono a portare strumenti di derivazione jazz, come percussioni e fiati, in chiesa.

Dorsey, che aveva composto e suonato il piano per giganti del blues come Tampa Red, Ma Rainey e Bessie Smith, lavorò sodo per sviluppare una sua propria musica, organizzando un convegno annuale per artisti gospel, andando in tournée con Martin per vendere spartiti e superando la resistenza delle chiese più conservatrici verso ciò che esse consideravano una musica mondana e peccaminosa. Combinare la struttura "sixteen bar" e i modi e ritmi del blues con i testi religiosi, aprì la possibilità ad artisti innovativi, come Sister Rosetta Tharpe, di usare il proprio talento nelle canzoni, mentre ispiravano i fedeli a "gridare", a "buttare fuori" per aggiungere parole alle sue o per inserire linee musicali proprie in risposta al suo canto.

Questo "stile libero" influenzò altri stili religiosi neri alla stessa maniera. I gruppi più conosciuti degli anni Trenta erano quartetti o gruppi piccoli maschili come il Golden Gate Quartet che cantavano, di solito senza accompagnamento, nello stile quartetto Jubilee mescolando attentamente armonie, canti melodiosi, sincopati giocosi e arrangiamenti sofisticati per ottenere uno stile sperimentale fresco ben lontano dal più sobrio canto di inni. Questi gruppi assorbirono suoni popolari da gruppi pop come i Mills Brothers e produssero canzoni che univano temi religiosi, humor e satira politico-sociale. Cominciarono a mostrare sempre maggior influenza dal Gospel da che incorporarono la nuova musica nel loro repertorio.

Hieronymus Bosch


La cura della follia - 1475-1480
olio su tavola; 48 x 35
Madrid, Museo del Prado

Un quadro di questo soggetto si trovava nella sala da pranzo del vescovo di Utrecht, Filippo di Borgogna; nel 1524 era elencato negli inventari del castello di Duurstede; nel 1570 entrò a far parte, con altre sei opere del pittore, della collezione di Filippo II. La maggior parte della critica concorda nel considerarlo un originale della giovinezza del pittore. Nel dipinto un uomo stolto ricorre a un chirurgo ciarlatano per liberarsi dal suo male, una malattia che ha la forma di un tulipano, perché “tulpe” in olandese vuol dire follia. Il soggetto si ricollega alla satira popolare, e alle invettive contro l’arte medica. Nel quadro si scorge, seppur in maniera ancora non definita, il contrasto fra chiarezza espressiva e più complessa intenzione simbolica, tipiche dell’opera di Bosch.
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Hieronymus Bosch


Bosch nasce nel 1453, probabilmente il 2 ottobre, a ‘s-Hertogenbosch, città del Brabante Olandese, figlio del pittore Jeroen Anthoniszoon van Aken. Prenderà poi lo pseudonimo di Hieronymus Bosch, forse per distinguersi dai molti omonimi della famiglia. La prime notizie del pittore risalgono al 1474, quando risulta impegnato in una transazione economica per conto della sorella: la maggior parte delle informazioni sulla sua vita si riferiranno a operazioni finanziarie registrate nel catasto della città. Il padre, che muore nel 1478, lascia la direzione della bottega al fratello di Bosch, Goosen. In questo stesso anno l’artista sposa Aleyt, una ricca patrizia, e l’accorta attività di amministratore dei beni della moglie gli permetterà spesso, nella sua carriera di pittore, di accontentarsi di semplici rimborsi spese per le sue opere. Nel 1486 entra nella confraternita di Nostra Signora, una congregazione dedita a opere di carità e all’allestimento di spettacoli religiosi. Due anni dopo viene nominato “notabile” della confraternita, riconoscimento che sancisce la sua ascesa sociale. Fra il 1489 e il 1492 lavora alla pala d’altare per la cappella della confraternita di Nostra Signora nella cattedrale. In questo stesso periodo esegue probabilmente anche l’Andata al Calvario di Vienna, la Morte dell’avaro e la Nave dei folli. Negli anni successivi continua a lavorare per la cappella della confraternita fornendo i disegni per le vetrate, realizzate dal maestro vetraio Willelm Lambert. Dal 1499 e per i successivi tre anni non si hanno notizie del pittore nella sua città natale: questo fatto e la presenza di alcune sue opere a Venezia hanno fatto ipotizzare un suo soggiorno nella Serenissima agli inizi del Cinquecento. Nel 1504 Filippo il Bello, che ha conosciuto Bosch nel 1496, gli commissiona una tavola con un Giudizio Universale, identificabile forse con il Trittico del Giudizio finale di Vienna o con il frammentario Giudizio finale di Monaco. L’attività dell’artista è sempre più intensa: fra il 1505 e il 1510 fornisce disegni per decorazioni e modelli per l’arricchimento della cappella della confraternita e porta a compimento alcune fra le sue opere più note, dal Trittico degli eremiti di Venezia al Trittico delle tentazioni di Lisbona, dall’Andata al Calvario alle Tentazioni di Sant’Antonio, ambedue al Prado. Nel 1515 lavora probabilmente alla Salita al Calvario di Gand, una delle ultime opere documentate. Non si conosce la data esatta della morte di Bosch, ma dai registri della confraternita sappiamo che il 9 agosto 1516, nella cappella della confraternita di Nostra Signora nella cattedrale, si svolgono i funerali del pittore.
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giovedì, ottobre 19, 2006

LA GRANDE ABBUFFATA



Le origini della Grande Abbuffata (1973) risalgono a una ventina di anni prima, quando Marco Ferreri, produttore ed interprete (il grosso corpo chiuso nella corazza di un guerriero medioevale) del film Donne e soldati di Marchi e Malerba, stupiva Parma con i suoi pasti pantagruelici. Poi venne la ‘cinghia’ spagnola, con l’umor macabro imparato laggiù: Rafael Azcona non lo abbandonò quasi mai da allora, ed al suo fianco anche qui, sceneggiando con lui un soggettocce, per il suo lato autobiografico, va comunque ascritto al regista.
Nel frattempo Ferreri si è calmato a tavola, ma trasponeva su suoi personaggi una convinzione a lungo maturata e sempre più rinvigorita. Ai sentimenti ormai deperiti e scomparsi nel mondo egli sostituisce la fisiologia pura e semplice, il cibo e il sesso egualmente ingeriti in quantità da infarto, e fa della Grande boufe (titolo francese della coproduzione girata nei dintorni di Parigi) non gia il trionfo della vita pagana con in Rebelais, bensì – in questo più vicino al marchese di Sade – una sinistra propedeutica alla morte. I candidati al suicidio per eccesso di abbondanza ( non si vive forse nella società dei consumi, e perché non si dovrebbe schiattare per il troppo consumare?) sono 4 signori tra i quaranta e i cinquanta, due francesi e due italiani, indicati con nomi degli attori che li impersonano, i q-uali si danno convegno nella villa d’uno di essi con provviste del caso: quarti di bue, forme di parmigiano e tutto il resto, per un “seminario di culinaria”.
C’è Ugo (Tognazzi), chef di cucina divenuto proprietario di ristorante: è lui che provvede incessantemente alle prime colazioni, ai pasti e alle cene, con manicaretti sempre più squisiti e sempre più monumentali. C’è Philippe (Noiret), un giudice esperto in gastronomia anche se, per tutta la vita, non sembra essersi attaccato ad altro che al seno della stagionata nutrice, la quale gli elargisce modesti sollazzi sessuali. C’è Michel (Piccoli), il più colto e raffinato della compagnia,che in televisione si occupa di problemi ecologici e in privato suona il piano e adora la danza classica, ma perderà presto la linea. E c’è Marcello (Mastroianni), un pilota dell’Alitalia che è più imbambolato, tutto perso dietro una sua vecchia Bugatti, e che mangia a quattro palmenti solo per soddisfare la propria satiriasi.
E’ quest’ultimo, infatti, che non si accontenta delle diapositive di donne nude proiettate a condimento del banchetto, ma reclama la presenza di prostitute per un nutrimento già completo.Ne vengono convocate tre che pur essendo professioniste del letto, non lo sono della crapula, e abbandonano il terreno di lotta appena vedono la mala parata. La quarta donna, invece, non è una squillo ma una maestra: passava di li il mattino con gli scolaretti ha assaggiato qualche pietanza, ha adocchiato gli uomini, e invitata per la sera non si rifiuta, ne si trova a disagio con le giovani concorrenti. Anzi in carne com’è fa subito colpo sul giudice, cui non par vero di trovare una nutrice meno malandata della sua. Del resto non è geloso e la divide volentieri, una volta partite le altre, con i compagni di tavola. Opima, curiosa, sensuale, questa Andéa, che in Francia è un nome femminile (l’attrice proveniente dal teatro e qui rivelata allo schermo, bravissima come i quattro maschi, è Andréa Ferréol) , resta. Resta fino alla fine ossia, nel caso specifico, fino alla fine dei quattro.
La quale avviene in quest’ordine. Primo il pilota, che dopo essersi prodotto in ogni genere di evoluzione, con l’avidità di un infante priapesco, non regge al primo fallimento, e sconvolto dagli escrementi che invadono la casa e muore, tatua di ghiaccio nella notte di neve, al volante della Bugatti.
Secondo il signorile Michel, più che si nutre e più s’ingravida di una spaventosa aerofagia e dopo, aver frastornato a più riprese la magione di note tutt’altro che pianistiche, cade stremato sull’ultima terrificante esplosione. Terzo il cuoco, che si uccide da solo su un vertiginoso pasticcio di fegato, il suo capolavoro, mentre la donna, che lo ha inutilmente pregato di fermarsi gli rende piangendo l’estremo servizio erotico (intanto i cadaveri dei primi due occhieggiano dei frigoriferi).
Quarto ed ultimo il giudice che, diabetico com’è spira all’alba su due dolcissimi budini a forma di mammelle, mentre i macellai venuti con la nuova carne la depositano all’esterno (l’interno è gia occupato) e il giardino viene invaso da cani.
La Grande abbuffata è un po’ il rovescio del film di Bunel il fascino discreto della borghesia uscito l’anno precedente: la non riescono a mangiare, qui si ammazzano mangiando. Simboleggiata dalla villa liberty in cui si rinchiudono i quattro ghiottoni in un fluvio di arredi, specchi e cineserie, la borghesia giunta al capolinea delle proprie gratificazioni, annichilita dalla sua stessa frenesia di possesso, decide di autodistruggersi nella maniera più conseguente e meno dolorosa. Il fascino in cui esegue l’operazione non è però cosi discreto: si apparta in solitudine, si, ma stipando il rifugio di ogni sorta di alimenti e di oggetti (comprese, ovviamente, le donne-oggetto), facendolo risuonare di flatulenze e mescolando ai profumi di un’antica civiltà gastronomica gli efluvi di una digestione mostruosa.
Sacerdotessa del triplice rito – cibo, sesso, morte – la donna “ideale” viene in soccorso d’una maschilità imperante e ormai declinante. E’ la femmina come sempre l’han voluta questi uomini: grassa e materna, opulenta e gentile, dalle carni rubensiane e dagli appetiti inesausti, disponibile a letto e in cucina, baccante gioiosa dalla salute di ferro. Colei che perfettamente si amalgama al quartetto, come una Borgogna al pasticcio di fegato, e che di ciascuno e di tutti soddisfa sogni e desideri; ma anche colei che con premura, sapienza e perfino malinconia, sospinge e accompagna l’un dopo l’altro alla meta prefissa del cupio dissolvi.
Quelli che furono i feroci libertini di Sade (che Pisolini riprenderà due anni dopo in Salò) come si sono ridotti!
Si nascondono ancora, ammassando senza più ordine gli ultimi avanzi di un potere e di una cultura in coma irreversibile, per rivolgere le armi del dominio e del delirio finalmente contro se stessi. Frustrati, impotenti in balia di tutti i loro vizi privati, sono cosci e anzi artefici della fine inevitabile, ma l’affrontano senza un residuo di nobiltà nello sfascio totale dello spirito e del corpo.
Il luogo prescelto per questa tragedia ridicola si trasforma sotto la nostra vista, e si potrebbe dire anche sotto il nostro olfatto, da museo a sepolcro, dove i resti di un’orgia smisurata e demente galleggiano in un’ atmosfera di putrefazione.
Il motivo del suicidio, solo sfiorato dal protagonista Dillinger è morto, (il capolavoro di Ferreri anteriore alla sua trasferta francese), in La grande abbuffata è moltiplicato per quattro e, da ipotetico, diventa reale. Se l’accumolo quantitativo consente un gioco di varianti orchestrato con rara perizia, il film sembra comunque irretirsi in un vicolo cieco, che toglie alla provocazione una parte del suo impatto. Un labirinto senza uscita che, per quanto ravvivato da folate di umorismo, a poco a poco viene colmato come un pozzo nero. Ma una soddisfazione mai assaporata in passato l’utore la ebbe: un clamoroso successo di pubblico.
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giovedì, ottobre 12, 2006

MANICOMI



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Karin Andersen



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Karin Andersen è un’ artista che ha eletto sia Bologna che Milano, due metropoli vive e confusionarie, come le sue patrie. Parte delle sue fotografie sono scattate sia in zone fatiscenti e in arie consegnate al marcio e all’abbandono, sia sottoterra, nelle stazioni metropolitane. Ma non sono immagini urbane qualunque, perché i protagonisti ibridi delle sue inquadrature ironiche sono fate e alieni che, a parte le orecchie grandi e appuntite, sono del tutto uguali ai nostri ragazzi in carne e ossa. Questi strani esseri che passeggiano perplessi nella periferia deserta sembrano stiano cercando un contatto “umano” con le loro radiotrasmittenti cosmiche…. La serie di immagini in questione si intitola Z.Movie, le ambientazioni sono aree industriali dimesse di Brooklyn e le cave di marmo di Carrara. Nelle immagini con le radiotrasmittenti da questa serie (cosmic radio), i protagonisti ibridi non cercano contatti umani (o per lo meno, non era questo l’obbiettivo fondamentale) bensì cercano di captare segnali alieni extraterrestri provenienti dal cosmo. L’ambientazione infatti non è più quella periferia ma delle cave di marmo, in funzione al paesaggio spaziale (ipotizzavo infatti una sorta di piattaforma di ascolto spaziale in un paesaggio deserto che rimandasse tanto alla superficie lunare quanto hai posti remoti in cui solitamente si collocano i radiotelescopi). Nella serie intitolata “trip” , una sorta di angelo-farfalla intende “svegliarci” alla vita volteggiando e piroettando sulle scale mobili, sulle banchine dei metrò, sotto le volte di una galleria. La serie si chiama “a trip to Lanimin Paloo”, Lanimin Paloo è un posto immaginario ed il nome è un anagramma delle lettere di Milano e Napoli, le città dove ha scattato le foto degli ambienti. E’ molto bello che consideri i protagonisti di questa serie come angeli o come qualcosa di positivo! Molte persone le hanno invece definite come qualcosa di inquietante, degli invasori silenziosi, di cui non si capiscono le buone o cattive intenzioni. Da parte mia volutamente, nessuna indicazione sulla loro natura benigna e maligna, la loro ambiguità è l’unica cosa che ho voluto comunicare con certezza… Sono le meraviglie della fotografia digitale che ci vuole comunicare, in questo caso attraverso il lavoro di Krin Andersen, che i miracoli e gli incantesimi, capitano anche sotto i nostri occhi, per strada. Basta avere la curiosità di cercarli e la giusta predisposizione per vederli. Quelle della Andersen sono immagini giocose alla Peter Pan e sottolineano quanto siano importanti la fantasia e il sogno per dare uno scossone benefico al percorso sonnolento dei pendolari e, in generale, per alleggerire la vita troppo veloce e distratta di tutti quei cittadini che, oramai, non si stupiscono più.