giovedì, ottobre 19, 2006

LA GRANDE ABBUFFATA



Le origini della Grande Abbuffata (1973) risalgono a una ventina di anni prima, quando Marco Ferreri, produttore ed interprete (il grosso corpo chiuso nella corazza di un guerriero medioevale) del film Donne e soldati di Marchi e Malerba, stupiva Parma con i suoi pasti pantagruelici. Poi venne la ‘cinghia’ spagnola, con l’umor macabro imparato laggiù: Rafael Azcona non lo abbandonò quasi mai da allora, ed al suo fianco anche qui, sceneggiando con lui un soggettocce, per il suo lato autobiografico, va comunque ascritto al regista.
Nel frattempo Ferreri si è calmato a tavola, ma trasponeva su suoi personaggi una convinzione a lungo maturata e sempre più rinvigorita. Ai sentimenti ormai deperiti e scomparsi nel mondo egli sostituisce la fisiologia pura e semplice, il cibo e il sesso egualmente ingeriti in quantità da infarto, e fa della Grande boufe (titolo francese della coproduzione girata nei dintorni di Parigi) non gia il trionfo della vita pagana con in Rebelais, bensì – in questo più vicino al marchese di Sade – una sinistra propedeutica alla morte. I candidati al suicidio per eccesso di abbondanza ( non si vive forse nella società dei consumi, e perché non si dovrebbe schiattare per il troppo consumare?) sono 4 signori tra i quaranta e i cinquanta, due francesi e due italiani, indicati con nomi degli attori che li impersonano, i q-uali si danno convegno nella villa d’uno di essi con provviste del caso: quarti di bue, forme di parmigiano e tutto il resto, per un “seminario di culinaria”.
C’è Ugo (Tognazzi), chef di cucina divenuto proprietario di ristorante: è lui che provvede incessantemente alle prime colazioni, ai pasti e alle cene, con manicaretti sempre più squisiti e sempre più monumentali. C’è Philippe (Noiret), un giudice esperto in gastronomia anche se, per tutta la vita, non sembra essersi attaccato ad altro che al seno della stagionata nutrice, la quale gli elargisce modesti sollazzi sessuali. C’è Michel (Piccoli), il più colto e raffinato della compagnia,che in televisione si occupa di problemi ecologici e in privato suona il piano e adora la danza classica, ma perderà presto la linea. E c’è Marcello (Mastroianni), un pilota dell’Alitalia che è più imbambolato, tutto perso dietro una sua vecchia Bugatti, e che mangia a quattro palmenti solo per soddisfare la propria satiriasi.
E’ quest’ultimo, infatti, che non si accontenta delle diapositive di donne nude proiettate a condimento del banchetto, ma reclama la presenza di prostitute per un nutrimento già completo.Ne vengono convocate tre che pur essendo professioniste del letto, non lo sono della crapula, e abbandonano il terreno di lotta appena vedono la mala parata. La quarta donna, invece, non è una squillo ma una maestra: passava di li il mattino con gli scolaretti ha assaggiato qualche pietanza, ha adocchiato gli uomini, e invitata per la sera non si rifiuta, ne si trova a disagio con le giovani concorrenti. Anzi in carne com’è fa subito colpo sul giudice, cui non par vero di trovare una nutrice meno malandata della sua. Del resto non è geloso e la divide volentieri, una volta partite le altre, con i compagni di tavola. Opima, curiosa, sensuale, questa Andéa, che in Francia è un nome femminile (l’attrice proveniente dal teatro e qui rivelata allo schermo, bravissima come i quattro maschi, è Andréa Ferréol) , resta. Resta fino alla fine ossia, nel caso specifico, fino alla fine dei quattro.
La quale avviene in quest’ordine. Primo il pilota, che dopo essersi prodotto in ogni genere di evoluzione, con l’avidità di un infante priapesco, non regge al primo fallimento, e sconvolto dagli escrementi che invadono la casa e muore, tatua di ghiaccio nella notte di neve, al volante della Bugatti.
Secondo il signorile Michel, più che si nutre e più s’ingravida di una spaventosa aerofagia e dopo, aver frastornato a più riprese la magione di note tutt’altro che pianistiche, cade stremato sull’ultima terrificante esplosione. Terzo il cuoco, che si uccide da solo su un vertiginoso pasticcio di fegato, il suo capolavoro, mentre la donna, che lo ha inutilmente pregato di fermarsi gli rende piangendo l’estremo servizio erotico (intanto i cadaveri dei primi due occhieggiano dei frigoriferi).
Quarto ed ultimo il giudice che, diabetico com’è spira all’alba su due dolcissimi budini a forma di mammelle, mentre i macellai venuti con la nuova carne la depositano all’esterno (l’interno è gia occupato) e il giardino viene invaso da cani.
La Grande abbuffata è un po’ il rovescio del film di Bunel il fascino discreto della borghesia uscito l’anno precedente: la non riescono a mangiare, qui si ammazzano mangiando. Simboleggiata dalla villa liberty in cui si rinchiudono i quattro ghiottoni in un fluvio di arredi, specchi e cineserie, la borghesia giunta al capolinea delle proprie gratificazioni, annichilita dalla sua stessa frenesia di possesso, decide di autodistruggersi nella maniera più conseguente e meno dolorosa. Il fascino in cui esegue l’operazione non è però cosi discreto: si apparta in solitudine, si, ma stipando il rifugio di ogni sorta di alimenti e di oggetti (comprese, ovviamente, le donne-oggetto), facendolo risuonare di flatulenze e mescolando ai profumi di un’antica civiltà gastronomica gli efluvi di una digestione mostruosa.
Sacerdotessa del triplice rito – cibo, sesso, morte – la donna “ideale” viene in soccorso d’una maschilità imperante e ormai declinante. E’ la femmina come sempre l’han voluta questi uomini: grassa e materna, opulenta e gentile, dalle carni rubensiane e dagli appetiti inesausti, disponibile a letto e in cucina, baccante gioiosa dalla salute di ferro. Colei che perfettamente si amalgama al quartetto, come una Borgogna al pasticcio di fegato, e che di ciascuno e di tutti soddisfa sogni e desideri; ma anche colei che con premura, sapienza e perfino malinconia, sospinge e accompagna l’un dopo l’altro alla meta prefissa del cupio dissolvi.
Quelli che furono i feroci libertini di Sade (che Pisolini riprenderà due anni dopo in Salò) come si sono ridotti!
Si nascondono ancora, ammassando senza più ordine gli ultimi avanzi di un potere e di una cultura in coma irreversibile, per rivolgere le armi del dominio e del delirio finalmente contro se stessi. Frustrati, impotenti in balia di tutti i loro vizi privati, sono cosci e anzi artefici della fine inevitabile, ma l’affrontano senza un residuo di nobiltà nello sfascio totale dello spirito e del corpo.
Il luogo prescelto per questa tragedia ridicola si trasforma sotto la nostra vista, e si potrebbe dire anche sotto il nostro olfatto, da museo a sepolcro, dove i resti di un’orgia smisurata e demente galleggiano in un’ atmosfera di putrefazione.
Il motivo del suicidio, solo sfiorato dal protagonista Dillinger è morto, (il capolavoro di Ferreri anteriore alla sua trasferta francese), in La grande abbuffata è moltiplicato per quattro e, da ipotetico, diventa reale. Se l’accumolo quantitativo consente un gioco di varianti orchestrato con rara perizia, il film sembra comunque irretirsi in un vicolo cieco, che toglie alla provocazione una parte del suo impatto. Un labirinto senza uscita che, per quanto ravvivato da folate di umorismo, a poco a poco viene colmato come un pozzo nero. Ma una soddisfazione mai assaporata in passato l’utore la ebbe: un clamoroso successo di pubblico.
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