Download Diamanda Galas - Heaven Have Mercy
Spesso si usa a sproposito l’aggettivo maledetto parlando di artisti che oggi, nel migliore dei casi, giocano con estremismi e provocazioni di facciata. Lei no, Diamanda Galas non scherza, la morte, la pena, il riscatto, la nuova peste (l’Aids), la sofferenza e l’urlo sono temi autentici, poiché viscerale è il suo immergersi in questi inferni. Li affronta forte di una voce strepitosa, impossibile, capace di scalare un’ottava dietro l’altra con disinvoltura sconcertante. Ascoltarla è un’esperienza sconvolgente, inaudita, letteralmente. I sette brani di questo nuovo album, registrati dal vivo durante il tour “Diamanda’s Valentines Day Massacre” sono una eccellente introduzione al suo mondo, poiché così morbida Diamanda non lo è mai stata, neanche in quello che finora era il suo disco più musicale, The Singer (1992), che la vedeva, come in questo caso, accompagnarsi al piano come nel suo ideale, ma meno riuscito seguito, Malediction & Prayer (1998), con un bell’omaggio a Pier Paolo Pasolini. Già, la Galas è anche fine pianista, come conferma il dolcissimo Interlude (Time) di Timi Yuro, la cantante che lanciò Hurt (da noi nota come A chi nella versione di Fausto Leali). Pianista che canta come se suonasse il piano, ma non in un modo qualsiasi, poiché, fu la stessa Galas in un’intervista a definirsi il Cecil Taylor della voce e chi conosce il torrenziale approccio allo strumento del pianista newyorkese, capirà e troverà corretto il parallelo.
Dunque la strega di San Diego ritorna dopo quasi quattro anni di silenzio discografico. Ritorna e canta, splendidamente, blues, alla fin fine blues del profondo sud, venati di influenze mediorientali, bizantine (la Galas è di origine greca), blues stracciati in mille pezzi, scheggiati, che letteralmente esplodono.
Anche in questa occasione la Galas a volte lancia grida strazianti, ma non sono sconvolgenti come in passato (salvo non averla mai ascoltata prima). Piuttosto, lo shock questa volta arriva dal repertorio, che oltre alla Yuro, seleziona da songbook eterogenei e apparentemente non radicali, a partire da Autumn Leaves (Le foglie morte) su cui improvvisa al piano prima di esporne il tema, farlo schizzare in aria e riafferrarlo per farlo a pezzi definitivamente, e dalla chanson di Edith Piaf Heaven Have Mercy, che muove drammaticamente con il controcanto di una sirena. Commuovente. Ancora, 8 Men And 4 Woman di O.V. Wright, leggendario protagonista del southern soul, una song qui avvolta da grida strazianti, con un pianoforte picchiato duro e un passaggio chopiniano ancora più spiazzante. Oppure Long Black Veil di Johnny Cash, trasfigurato o forse finalmente in possesso della propria autentica anima nera, un po’ come la Galas fece con I Put On Spell On You il classico di Screamin' Jay Hawkins nel citato album The Singer. Altra metamorfosi è quella imposta a Down So Low, dal repertorio della cantante Tracy Nelson, che si trasforma in una ballad per il popolo che ulula nelle notti di luna piena. Da brividi. Vertice assoluto Oh Death, di Ralph Stanley, storico suonatore di banjo, dove la straordinaria estensione vocale consente alla Galas di volare dalla foce del Mississipi alla Mecca e ritorno per poi scatenarsi in un sabba vocale dalla progressione impressionante. Dimenticate il bluegrass e immaginate una soprano officiare a tempo di blues un rito voodoo. Ve ne farete una pallida idea.
Gennaro Fucile
Spesso si usa a sproposito l’aggettivo maledetto parlando di artisti che oggi, nel migliore dei casi, giocano con estremismi e provocazioni di facciata. Lei no, Diamanda Galas non scherza, la morte, la pena, il riscatto, la nuova peste (l’Aids), la sofferenza e l’urlo sono temi autentici, poiché viscerale è il suo immergersi in questi inferni. Li affronta forte di una voce strepitosa, impossibile, capace di scalare un’ottava dietro l’altra con disinvoltura sconcertante. Ascoltarla è un’esperienza sconvolgente, inaudita, letteralmente. I sette brani di questo nuovo album, registrati dal vivo durante il tour “Diamanda’s Valentines Day Massacre” sono una eccellente introduzione al suo mondo, poiché così morbida Diamanda non lo è mai stata, neanche in quello che finora era il suo disco più musicale, The Singer (1992), che la vedeva, come in questo caso, accompagnarsi al piano come nel suo ideale, ma meno riuscito seguito, Malediction & Prayer (1998), con un bell’omaggio a Pier Paolo Pasolini. Già, la Galas è anche fine pianista, come conferma il dolcissimo Interlude (Time) di Timi Yuro, la cantante che lanciò Hurt (da noi nota come A chi nella versione di Fausto Leali). Pianista che canta come se suonasse il piano, ma non in un modo qualsiasi, poiché, fu la stessa Galas in un’intervista a definirsi il Cecil Taylor della voce e chi conosce il torrenziale approccio allo strumento del pianista newyorkese, capirà e troverà corretto il parallelo.
Dunque la strega di San Diego ritorna dopo quasi quattro anni di silenzio discografico. Ritorna e canta, splendidamente, blues, alla fin fine blues del profondo sud, venati di influenze mediorientali, bizantine (la Galas è di origine greca), blues stracciati in mille pezzi, scheggiati, che letteralmente esplodono.
Anche in questa occasione la Galas a volte lancia grida strazianti, ma non sono sconvolgenti come in passato (salvo non averla mai ascoltata prima). Piuttosto, lo shock questa volta arriva dal repertorio, che oltre alla Yuro, seleziona da songbook eterogenei e apparentemente non radicali, a partire da Autumn Leaves (Le foglie morte) su cui improvvisa al piano prima di esporne il tema, farlo schizzare in aria e riafferrarlo per farlo a pezzi definitivamente, e dalla chanson di Edith Piaf Heaven Have Mercy, che muove drammaticamente con il controcanto di una sirena. Commuovente. Ancora, 8 Men And 4 Woman di O.V. Wright, leggendario protagonista del southern soul, una song qui avvolta da grida strazianti, con un pianoforte picchiato duro e un passaggio chopiniano ancora più spiazzante. Oppure Long Black Veil di Johnny Cash, trasfigurato o forse finalmente in possesso della propria autentica anima nera, un po’ come la Galas fece con I Put On Spell On You il classico di Screamin' Jay Hawkins nel citato album The Singer. Altra metamorfosi è quella imposta a Down So Low, dal repertorio della cantante Tracy Nelson, che si trasforma in una ballad per il popolo che ulula nelle notti di luna piena. Da brividi. Vertice assoluto Oh Death, di Ralph Stanley, storico suonatore di banjo, dove la straordinaria estensione vocale consente alla Galas di volare dalla foce del Mississipi alla Mecca e ritorno per poi scatenarsi in un sabba vocale dalla progressione impressionante. Dimenticate il bluegrass e immaginate una soprano officiare a tempo di blues un rito voodoo. Ve ne farete una pallida idea.
Gennaro Fucile
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