venerdì, gennaio 05, 2007

Zuccherificio - Cecina




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Per i giovani di Cecina di 18, 20 anni lo Zuccherificio è poco più che un nome un luogo incerto nella geografia cittadina, un ammasso lontano ti tubi, edifici in mattoni e un alta ciminiera rossa.

Elle notti d’estate, percorrendo il viale di pini che conduce a Marina, è una macchia informe nel buio. Cos’ è cambiata persino la nostra coscienza dei luoghi. Perchè per altri, per molti altri appena un poco più anziani, tante altre cose è stato lo Zuccherificio. A ripensarci, sembra di sentire ancora il rumore sordo e continuo di quella enorme macchina che ora dorme per sempre, e pare tornare quell’odore dolciastro e nauseante delle vasche di decantazione. Era tutto un levarsi di vapori da ogni fessura come respiri, e le grandi finestre rimanevano perennemente illuminate mentre i fari brillavano sui nastri trasportatori e sui piazzali e file interminabili e pazienti di camion sostavano in via Ginori colmi di barbabietole in attesa di essere ingoiate dai meandri della fabbrica.

Per tanti, per quasi tutti i giovani della mia generazione, lo zuccherificio è stato questo e molto altro ancora.

La “campagna” iniziava i primi giorni di agosto e durava fino a ottobre. Era una fabbrica vera, era lavoro vero, era fatica vera.

Generazioni di uomini di Cecina hanno fatto questo lavoro, alcuni mesi ogni anno e, avvolte, i padri, e i figli e i fratelli, a distanza di anni, si sono avvicendati negli stessi lavori. E i nomi dei reparti individuavano fatiche o invidiate mansioni: le lavatrici, il forno a calce, le bolle, le turbine, l’insaccatrice, i magazzini, le polpe secche, la chimica…

Ora, tutte parole. Tutti luoghi, allora, dove uomini lavoravano turno dopo turno, otto lunghe ore, ventiquattro ore al giorno per tutta la campagna. Giovani, studenti, padri di famiglia, stagionali o fissi, ognuno al loro posto dentro la macchina un po’ antica e quasi misteriosa con i suoi recessi profondi, con scale su scale, con i corridoi sospesi, accudivano la grande ape regina. E sacco dopo sacco, a cinquanta chili alla volta. Fila sui fila, una stiva dopo l’altra, riempivano fino alle alte finestre, fino a sfiorare i soffitti, quei magazzini così sconfinati apparivano all’inizio, ma che inesorabilmente si colmavano di zucchero profumato e bollente.

C’era ancora molto altro, certo, in quel mondo che fu lo zuccherificio, c’è molto altro nella coscienza di tutti coloro che li hanno preso il loro primo stipendio e vi hanno fatto due o tre mesi per poche campagne, o di coloro che via hanno lavorato stabilmente tutto l’anno per una vita.

Questo ricordare non è altro che richiamare alla mente un’esperienza che dopo anni è divenuta già una memoria quasi perduta.

Le fotografie di Enrico genovesi in questo bel libro hanno lo stesso o un maggior potere di rievocazione con immagini in bilico tra la narrazione del processo produttivo e l’estetica del lavoro degli uomini e delle macchine.

Questo è un pezzo grande o piccolo della vita di tanti che i mutamenti economici, che ci sovrastano con la stessa durezza ineluttabile di quello che era il destino per gli antichi, hanno trasformato rapidamente in storia come le mura, come le torri, come la masa caotica ma esatta dei grandi tubi rugginosi.

Che questa storia, allora non vada perduta.

Giovanni Parenti


Recensione al libro Enrico Genovesi www.enricogenovesi.it

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